SISIFO, TàNTALO E IL ROSSO

Il povero Tàntalo torturato nell’eternità per la sua terribile colpa pur tuttavia si chiedeva cosa facesse Sisifo su e giù per

l’alta rupe; certo non avrebbe mai potuto combinarla peggio della sua.
Infatti perché mai lo scaltro Sisifo fondatore e re della città di Efira (Corinto) era lì che spingeva quel masso su per una dura erta prima che rotolasse di nuovo in basso e dovendo ridiscendere a riprenderlo?

Certo il suo fallo non deve essere stato poca cosa.

Lui va dicendo che predettoglielo dall’Oracolo di Delfi ha dovuto sedurre e ingravidare la nipote Tiro, figlia del fratello Salmoneo che, tra l’altro, gli ha usurpato il trono della Tessaglia.

Ma Tiro saputo dell’Oracolo di Delfi ha reagito duramente, accidenti, e presa da una devastante rabbia ha ucciso i suoi due figli avuti da Sisifo.

Ma questi che si va a inventare, come se quella tragedia non lo riguardasse, certo scaltro, ma soprattutto irrefrenabile e senza scrupoli come nessun’altro, presi i corpi dei due figli uccisi dalla loro madre e come se la cosa non fosse fatto suo, si reca sulla piazza del mercato di Larissa accusando l’incolpevole, almeno per questo, Salmoneo spargendo la voce che quei suoi due figli uccisi sono in realtà frutto di un rapporto incestuoso tra Salmoneo e la figlia Tiro, ottenendo per questo misfatto l’esilio del povero Salmoneo.

Ma vi è ben altro; infatti lo scaltro e poliedrico Sisifo era solito volgere anche altrove la sua sconfinata capacità di affrontare i problemi e le questioni che gli si presentavano. Così avvenne che Corinto venisse attanagliata da una gravissima siccità, tanto tragica, mai vista prima.

Tuttavia accadde che un giorno il ficcanaso Sisifo si trovasse proprio dalle parti della rocca della città, nel luogo dove Zeus amoreggiava con la bellissima ninfa ​Egina, figlia del dio fluviale Asopo, ninfa che, trasformatosi in un’aquila Zeus aveva rapita.

Accadde allora che Sisifo vide apparirgli di fronte un anziano che altri non era che lo stesso dio Asopo che si informava sulla propria figlia. Di solito sempre pronto e scaltro, Sisifo disse che certo l’aveva vista ma non rivelò con chi, come se di fronte non avesse un dio.

Così pensò bene di barattare quella informazione in cambio di una sorgente perenne d’acqua di cui aveva estremo bisogno per la sua città Corinto. Ottenuto lo scambio, Sisifo disse chi fosse colui il quale era stato sorpreso con la figlia Egina.

Ma Certo Zeus non gradì la cosa, c’era d’aspettarselo, e dopo aver scagliato un fulmine contro il povero Asopo, di solito faceva così, chiese a suo fratello Ade di ordinare a Tanatos di catturare quell’intrallazzatore di Sisifo e gettarlo nel Tartaro.

Ma nonostante tutto Sisifo era pur sempre Sisifo. Infatti questi accolse il suo importante ospite Tanatos offrendogli da bere tanto da farlo ubriacare fino al punto che gli fu semplice incatenarlo e imprigionarlo; con Tanatos incatenato e imprigionato scomparve la morte dal mondo.

Così Ares scoprì con sgomento che durante le sue amate guerre non moriva più nessuno e dunque le guerre diventavano inutili. Informatosi, cosa semplice per lui, decise allora di catturare l’unico colpevole di questo stato di cose, sì lui: proprio l’intrigante Sisifo.

Ma ahimè povero Sisifo, per lui fu costretto a muoversi adirato lo stesso Ares rimasto per sua colpa con le mani vuote. Così infuriato prese Sisifo e, affidatolo a Tanatos che aveva liberato, lo sbattè nel Tartaro.

Ma Sisifo, sempre lui, aveva imposto alla povera moglie Merope che non gli desse sepoltura in modo da levare indignato la protesta agli dei contro l’incolpevole Merope per non aver fatto ciò.

Addirittura Persefone, moglie di Ade, a sua volta gabbata, lo fece tornare sulla terra per tre giorni in modo che alla sua povera moglie fosse duramente imposto di celebrare i riti funebri. Tornato sul mondo, Sisifo si guardò bene dall’obbligare Merope a dargli sepoltura.

Ed ecco di nuovo Hermes inviato dagli dèi ma questa volta per catturarlo e sbatterlo ancora una volta negli inferi, cosa che fece con molto piacere anche perché avrebbe finalmente potuto, per dirla tutta, vendicarsi e di motivi certo ne aveva.

Come dimenticare che Sisifo aveva sollevato il velo sulle a dir poco brutali magagne del figlioletto di Ares, Autolico, noto come “il ladro supremo” e anche per avere violentato la propria figlia Anticlea a sua volta madre di Ulisse; ma sullo sfondo in qualche modo c’è sempre lui, Sisifo.

Ma le cose che si dicono sono spesso arzigogolate e contraddittorie. Infatti c’è chi sostiene che in realtà a Sisifo fosse stata concessa la scelta di poter tornare nel mondo dei vivi non già da Persefone ma dallo stesso Ade, e tuttavia per un solo giorno, ma, come detto, Sisifo si guardò bene dal tenere fede all’impegno e così la morte arrivò per lui come per tutti.

Ed ecco infine la condanna per tutte le sue malefatte e la sua irrefrenabile voglia di mettere le mani dappertutto; Zeus, infatti, punì Sisifo a dovere per sempre spingere su di una ripida erta un enorme masso e non appena giungeva in vetta questo gli rotolava giù e lui doveva ridiscendere riprendere il masso e con esso risalire l’erta, e così per sempre.

Mentre compiva questa sua eterna condanna, Sisifo un giorno volse lo sguardo verso il basso e vide Tantalo giacere tra ogni delizia del mondo e provò una feroce invidia per quel privilegiato, beato tra i beati.

Ma perché poi molto più in basso Tàntalo re di Lidia e Frigia guardava e invidiava a sua volta Sisifo che spingeva un grande masso su per una ripida erta?

Probabilmente le colpe di quel Sisifo, re come lui, benché certamente meno pesanti delle sue, pur dovevano essere state alquanto gravi.

Lui era stato gettato nel Tartaro dagli Dèi per punire i suoi numerosissimi e inenarrabili peccati.

Ed ora per l’eternità eccolo lì a desiderare, a bramare oltre ogni dire cose che erano state abituale e noioso trastullo di tutti i giorni e che copiose aveva intorno ma che non poteva toccare ma solo guardare e desiderare, altrimenti svanivano.

Ecco, poteva solo desiderare, guardare e soffrire, null’altro, dunque che essere infelice e sofferente.

A nulla gli valse essere figlio di Zeus o, secondo Euripide, della ninfa Pluto e di Tmolo, quest’ultimo a sua volta figlio di Ares e di Teogonie e marito libertino di Onfale.

Ed è bene che mi fermi qui prima di perdermi irrimediabilmente in questo guazzabuglio di ascendenti, discendenti e di chi più ne abbia e più ne metta.
Comunque il nostro re Tàntalo figlio di Zeus o di Tmolo che fosse, e certamente di una ninfa, a sua volta pare che sposasse la ninfa Dione certo figlia, nipote, pronipote e via via salendo e scendendo, al tempo si usava così, di dèi e di dèe a dismisura e fu padre prolifico e instancabile.

La sua vita, la sua dimora si mossero e si svolsero in Anatolia e più precisamente sul monte Sipylos dove fondò la quasi omonima città di Tantalis.

Eppure nonostante Tàntalo fosse ben voluto dagli dèi che gli donarono il sommo privilegio di essere ammesso alla loro mensa, ne combinò di cotte e di crude; infatti ciononostante trovò modo di recare più e più volte loro offesa, ignorando ogni forma di xenìa, come dire il dovere di ospitalità, insomma le buone maniere.

Infatti cercò di rapire Ganimede coppiere degli dèi caro anche a Minosse ma soprattutto a Zeus.

Tàntalo inoltre rubò anche l’ambrosia sempre cara agli Dèi perché con essa potesse anche lui accarezzare l’immortalità e, come suo solito, tronfio e noncurante, la offrì anche ai suoi sudditi.

Ma certo non si fermò qui e per continuare a prendersi gioco degli Dèi, Efesto in questo caso, si diede in qualche modo da fare, giurando il falso a Hermes inviato per recuperare il cane d’oro plasmato da Efesto per metterlo a guardia del tempio di Zeus a Creta.

Neanche il tempo di assimilare una narrazione che subito sullo stesso tema ne spunta un’altra affatto diversa. Così pare invece che il cane d’oro in realtà, o in fantasia, fosse addirittura Rea che Efesto aveva resa così.

Ma Tàntalo, sempre lui, andò oltre, molto oltre… niente di meno osò mettere alla prova gli dèi e organizzato un banchetto a cui li aveva invitati dopo aver ucciso il figlio diede loro le sue carni da mangiare.

Ma persino gli dèi dell’Olimpo avvezzi a contemplare le infinite mostruosità e atrocità del mondo restarono sospesi e interdetti. Così altro non fecero che gettare Tàntalo nel Tartaro a macerarsi per l’eternità.

A questo si unì il suo terribile supplizio, fu condannato infatti ad essere straziato da una atroce fame e sete.

Così se ne stava lì, immerso in un lago di fresche acque dolci, che appena provava ad utilizzare per dare refrigerio alle labbra arse e screpolate svanivano, per riapparire rigogliose quando se ne stava immoto; allo stesso modo quando straziato dalla fame provava ad allungare una mano per cogliere un dolce e succoso frutto che lo sfiorava sotto l’albero ove giaceva, anch’esso scompariva per riapparire quando Tàntalo abbassava le braccia.

Infine, quasi nessuno ricordava il suo nome, per i più era il Rosso e basta.

Il bidello della locale scuola media Raffaele, piccolo, con quel nomignolo che si riferiva alla punta del suo naso che era stata sempre rossa a causa del vino che amava, avrebbe pagato i suoi beati indugi di un tempo in qualche cantina o con gli amici davanti a una bottiglia del vino corposo rosso delle sue parti.

Ma ora, a qualche anno dalla pensione, quel bello e corposo vino, suo fedele e insostituibile amico era diventato solo un caro e lontano miraggio. Colpa e causa di questa sventura erano stati la sua malferma salute, la moglie apprensiva, i suoi pochi amici, i venditori che messi sull’avviso gli avevano chiuso le porte come la sua cara e vecchia cantina con l’amico cantiniere.

Quasi tutti i giorni a scuola incontrava il professore di italiano Attilio Cassini che sapeva dei suoi passati problemi con il vino e volentieri si soffermava a chiacchierare un po’ con lui.
Poggiandogli la mano sulla spalla comprensivo e solidale sovente gli diceva:
“Povero il mio caro Raffaele, pensando a una tua bella bottiglia del nostro corposo rosso per te irraggiungibile come un miraggio, mi sembri Tàntalo che guarda Sisifo e lo invidia essendo a sua volta invidiato da quest’ultimo; ma… chi lo sa…”
Tornando a casa qualche volta il povero bidello si chiedeva: “Ma chi caspita sono questi signori dai nomi strani mai sentiti di cui ogni tanto parla il professore? Quello tiene la testa fresca…”.
Un giorno rientrato a casa dopo aver accompagnato la moglie al paese vicino dalla sorella, dove sarebbe rimasta per la notte, di pessimo umore per quella solitudine che gli era crollata addosso senza la possibilità di litigare, di battibeccare, di lanciare urlanti improperi e sbattere qualche uscio, aprì la porta ed entrò.

Si avviò verso la credenza che stava dalla parte opposta della stanza per vedere se ci fosse roba da mangiare; eppure qualcosa aveva toccato il suo animo traducendosi in inquietudine che non avrebbe saputo dire e che gli trasmetteva un lieve tremore alle mani.

Senza sapere perché ritornò indietro e si avvicinò alla porta da cui era appena entrato. Lentamente si voltò e lì sul tavolo come una visione gli apparve una bottiglia di vino. Osservò a lungo quel che era sul tavolo ma non si muoveva; ristette a lungo con lo sguardo sognante e perso, quindi lentamente quasi con timore si avvicinò e la guardava intensamente; poi rassegnato allargò le braccia quasi a volersi scusare e si sedette trasognato. Adagio la toccò, la girò restandone intontito.

Lontano si affacciava ai suoi confusi ricordi quel “Ma… Chi lo sa…” del professore Cassini.

Piano piano come se l’incanto potesse svanire da un momento all’altro prese la bottiglia tra le mani, la rigirò dolcemente e la ripose premuroso. La bottiglia era chiusa da un tozzo tappo di plastica che strinse un po’ sollevandolo, rimanendogli così nella mano. Arrivò al naso quel corposo effluvio che gli fece girare la testa.
Subito allungò la mano tremante sul tavolo e con essa strinse il bicchiere che sempre stava lì per l’acqua. Sollevò con fare solenne la bottiglia e con occhi lucidi colmò il primo bicchiere lasciando cadere il suo contenuto in gola. Bicchiere dopo bicchiere, ne vuotò in gola ben quattro e così quel dolce bere in fine cessò. Una sfumatura rossa tornò a colorargli la punta del naso come ai vecchi tempi.

Incrociò le braccia sul tavolo e vi poggiò il capo.

Prima di addormentarsi felice e appagato ricordò anche il nome strano di quei due amici del professore: sì, i signori Sisifo e Tàntalo…

Dimitri Maria Pierri