
L’AMERICA DI MARCO POLO L’età di mezzo colse il veneziano Emilione, nomignolo dei suoi avi, Marco Polo, rampollo di una schiatta di facoltosi mercanti,
trastullarsi nei suoi sogni immaginifici.
Pressoché aduso più a raccontare che a scrivere, soleva dire che non aveva narrato nemmanco della metà di ciò che aveva visto.
Ancora acerbo negli anni sentiva parlare spesso dal padre Nicolò e dallo zio Matteo dell’estremo Oriente e delle meraviglie di quei posti incantati, della via della seta, del grande condottiero mongolo Gengis Khan anche detto Temujin che dominava terre dalle vastità inimmaginabili e del nipote Kubilai Khan, che conquistò la Cina, e ne fu il primo sovrano della dinastia degli Yuan.
Infatti suo padre e lo zio avevano fatto tesoro di quanto saputo dal fratello maggiore Marco, che era stato impegnato in fruttuose attività commerciali con Costantinopoli e proficui scambi e traffici con la Crimea e più in generale nel levante.
Così Niccolò e Matteo partirono per San Giovanni d’Acri in Terra Santa dove incontrarono il Pontefice Gregorio X (Tedaldo Visconti) che diede loro una importante missiva per Kubilai, quinto gran Khan della Cina. Di poi, partendo nel 1261 dalla Crimea, colmi d’oro e pietre preziose, si diressero seguendo la parte meridionale del Volga nello Stato dell’Orda d’Oro in Mongolia. Qui concentrarono i loro traffici muovendosi dalla residenza di Berka Khan vicino a Sarai, l’odierna Astrachan, dopo essere stati a Soldaia, l’attuale Sudak, poi furono a Bucara che era la capitale del regno di Ciagatai, presso il Kan Buraq, giunsero a Ciandu, oggi Shang-tu; furono poi a Bolgar presso la confluenza del fiume Kama.
Così nel corso del loro primo lunghissimo viaggio e di quello successivo altrettanto lungo i Polo attraversarono la Turcomannia, la Piccola e la Grande Armenia, gli Urali, quindi procedettero dall’Anatolia al Caucaso.
Di poi passarono per gli otto regni che costituivano il dominio persiano, l’altopiano iranico fino a Hormuz, il Regno di Mosul, quelli di Tauris, di Kirman e quello di Baghdad.
Attraversarono gli spazi sterminati del deserto persiano, raggiunsero la contrada di Balkh, del Badachsan, poi furono nel Kashmir e a Samarcanda, quindi si spinsero verso il centro del continente asiatico. E ancora nel Pamir, a Kashgar, a Kotan, a Cherchen, a Lop e in buona parte del subcontinente indiano. Poi fu solo lo sterminato deserto della Mongolia e infine ecco la Cina.
Arrivarono e sostarono a Chemenfu (Ciandu) che era la residenza estiva del gran Khan Kubilai.
Qui i fratelli Polo ricevettero, supremo onore e privilegio, una sorta di prezioso salvacondotto rappresentato dalla “Tavola d’oro”, in cinese “Paiza” e in mongolo “Gerega” e, al loro ritorno, portarono a Venezia un pregiato tessuto di seta e oro, forse la mussola.
Marco Polo parlava e ai suoi ricordi una lieve eco di emozione faceva un po’ vacillare la sua voce mentre dettava proprio al suo fido amico Rustichello da Pisa le pagine del suo libro.
Aveva conosciuto Rustichello in prigione a Genova, dopo la cattura a largo della Dalmazia a seguito della battaglia navale di Curzola; ed ecco il libro divenuto famoso in tutto il mondo come IL MILIONE che forse richiamava, come detto, il nomignolo di Marco Polo e dei suoi antenati, scritto appunto da Rustichello da Pisa in franco-veneto dal titolo originario “devisament dou monde”, che divenne un’opera celebre e da tutti letta e vagheggiata. Quel libro racchiudeva i racconti del padre e dello zio a cui si aggiungeva l’esperienza che una volta adulto aveva fatto anche lui accompagnando i primi due nel loro secondo viaggio, esperienza che si protrasse per circa diciassette anni. Le mansioni di grande responsabilità affidategli presso il Gran Khan Cubilai erano molteplici: fu nominato inviato speciale presso varie regioni e potentati locali a dirimere questioni e controversie; fu inviato anche in veste di ispettore delle finanze per soprassedere al controllo dei monopoli imperiali e molto altro ancora.
Marco Polo se ne stava immerso nel suo dover fare, volente o nolente, il mercatante e, giocoforza, essere in grado di far di conto, di destreggiarsi nell’arte della navigazione e all’occasione di ricoprire anche le vesti di una sorta di ambasciatore tuttofare.
Eppure il miraggio di un lungo, lunghissimo viaggio abbandonava via via le nebbie del sogno e si dischiudeva sempre più alla luce della realtà.
E ciò infine avvenne. Ora, avanti con gli anni, aveva solo bisogno di parlare e di raccontare anche cose che non sarebbero mai state scritte: ma a chi?
Nonostante il suo da fare in famiglia sovente lo veniva a trovare e gli prestava ascolto una delle sue tre figlie, la diletta Belella, e a lei raccontò le straordinarie avventure incontrate e vissute dall’altra parte dell’Oceano.
E perso nei ricordi raccontava, raccontava… Ad un tratto si interruppe, si alzò e molto lentamente e adagio, sostenendosi sulle malferme gambe, raggiunse un vecchio stipo posto dall’altra parte della grande camera, sotto lo sguardo preoccupato di sua figlia. Tirate a sé le due ante vi raccattò all’interno un polveroso faldone di vetuste pergamene e qualche raro papiro che ne causarono un accesso di tosse stizzosa, placata la quale e chiuso lo stipo, con il suo fagotto tra le mani riguadagnò la sedia posta dall’altra parte. Appoggiatosi sulle ginocchia tutto quanto portava appresso, cominciò febbrilmente a scartabellarne il contenuto: “Vedi, vedi, cara,” diceva “questa è un’antica mappa che solo io posseggo… si chiama… si chiama… ecco, si chiama… No… No… Ora non ricordo… Non lo ricordo più… Insomma è la mappa di quella terra gelida, per lo più ricoperta di ghiacciai e ci sono giunto attraversando uno stretto e si trova da tutt’altra parte dell’orbe rispetto a quella dove andai con tuo nonno Nicolò e il fratello Matteo”.Riprese fiato e, interrompendosi ancora una volta, riprese il racconto del viaggio fatto con il padre e lo zio: “Sì, certo, come ti dicevo, quel lunghissimo viaggio che solo la seconda volta affrontammo insieme ci fece raggiungere quella parte della Cina settentrionale che chiamai Catai.
La prima volta che raggiunsero la Cina tuo nonno e suo fratello ricevettero dal Sultano Kublai Khan l’onorevole compito di richiedere al Pontefice a nome dell’imperatore del Catai di tornare in quel paese recando con noi dei missionari cattolici per diffondervi il cristianesimo; ci pensi quale grande onore?
Eppure quei santi padri non se la sentirono di venire con noi e dopo un po’ di strada ritornarono sui loro passi”. Poi lasciando svanire ancora una volta quel racconto ritornò alla sua scoperta: “Vedi cara, la mappa che ho qui e che è fatta su pelle di pecora, indica dove si trova la terra del ghiaccio e del gelo e lo stretto che ho attraversato per raggiungerla; ecco te la dono, sì, è tua affinché la conservi”. Marco Polo raccontò del lunghissimo viaggio intrapreso che lo portò al di là dell’Oceano poiché sapeva delle coste dell’America Nord Occidentale. Anche questa informazione gli era stata data dal padre e dallo zio che un giorno avevano parlato di una certa Fusane che in cinese voleva proprio riferirsi a una terra che si trovava “Oltre il mare”, sì, dall’altra parte dell’Oceano. Quindi pur non avendovi mai messo piede i cinesi conoscevano anche questa verità! Per Marco tutto aveva inizio e fine in quella vetusta mappa che aveva affidato alla figlia. Proprio quella mappa gli consentì di scoprire l’America prima di ogni altro al Mondo e prima di tornare a Venezia per restarvi nel 1295. Questa fondamentale mappa che fu tra le mani di Marco Polo riportava l’immagine di una nave accanto al prezioso documento più volte menzionato, che fu chiamato “Map with ship”, che mostrerebbe anche parte dell’India, delle Indie orientali, del Giappone, della Cina e infine dell’America. Cosa importante è che il documento recherebbe riprodotto al di sotto della rappresentazione della nave uno stemma con un insieme confuso di
lettere che condurrebbero proprio al nome Marco Polo. Inoltre occorre sottolineare ancora che dalla mappa in questione emergerebbe proprio il punto in cui la Siberia si fa presso l’Alaska preceduta dallo stretto di Bering. Ci sarebbero voluti ancora ben quattro secoli prima che il danese Vitus Bering si attribuisse fallacemente la scoperta di quello stretto a cui diede il suo nome. Insieme alla mappa consegnata alla figlia vi erano anche diverse lettere scritte o fatte scrivere da Marco il cui contenuto era in italiano, in latino, arabo e cinese e in tutte in qualche modo vi apparivano inequivocabili riferimenti all’America. Fondamentale fu per Marco, grazie a suo padre e allo zio, l’incontro con un mercante siriano che gli parlò dell’esistenza di un luogo che si trovava a oriente a poco più di un mese di viaggio dalla penisola della Kamchatka cosa che fu molto importante per lui: Così Marco Polo, assillato da un dubbio che si faceva tormento e inquietudine, decise di rompere gli indugi e di intraprendere un lungo viaggio per andare in Russia e raggiungere le vaste e gelide terre della Siberia. Si era nel 1282 e dopo aver indugiato un po’ nei territori circostanti finalmente fu in Siberia. Nel muoversi a fatica in quel territorio inospitale, avanzando tra le sue impervie steppe, capì perché lo chiamavano la provincia di oscurità, così come aveva sentito affrontando la taiga siberiana quella ostile e temibile fredda foresta che sembrava non finire. Eppure durante il suo aspro cammino fu sempre prossimo e certo di incontrare la terra ignota che si trovava aldilà dell’Oceano. “Vedi Belella”, continuò un poco chetatosi dopo l’accesso di tosse “come ti stavo dicendo, per raggiungere quella terra ignota dovetti attraversare uno stretto di mare d’acque gelide e in parte ghiacciate. Infatti nella traversata incontrai un gigantesco ghiacciaio che scendeva in quel mare che sembrava non avere fine e il solo pensarci ancora mi sgomenta e atterrisce. Chiamai quel posto penisola delle foche, dal nome che avevano quei bizzarri animali che lo popolavano e con le loro pelli gli abitanti del luogo vestivano e si coprivano, nutrendosi solo di pesce e vivendo in oscuri tuguri sotterranei”. Tornando però alla terra siberiana e allo stretto che separa questa dall’Alaska e al nulla che vi è a tal proposito riportato nel “Milione”, riecheggiano esplicative e risolutive le ultime parole lasciateci da Marco Polo in base alle quali non avrebbe fatto riportare che solo una piccola parte di tutto quanto scoperto e visto; ma nel raccontare dell’America si interruppe e cambiò discorso un’altra volta: “Vedi cara”, sospirò il vecchio e stanco esploratore veneziano tornando a parlare dell’immensa Cina, “Parlavo, parlavo e raccontavo, raccontavo di tutto e anche di più. Mi capitava però di omettere nel racconto delle cose… possibile mai, mi diceva qualche malpensante ascoltatore che riportava cose sentite chissà da chi, che non avessi visto alcune mirabolanti e magnifiche cose”. Scosse incredulo il capo e continuò: “Ora grazie alla strada aperta con mio padre e mio zio tutti coloro che sono in grado di farlo e ne hanno la possibilità formano una munita carovana di servitori, uomini d’arme, cavalli, muli e cammelli e intraprendono il lunghissimo cammino attraverso la Via della Seta che li condurrà in Mongolia e in Cina o, se ne sono capaci, anche in Zipangu”, sbottò quasi tremando di indignazione e di rabbia: “Sai che dicono… Sai cosa dicono? Sì, sì, dicono che forse io neppure ci sono stato in Cina… Le cose di cui parlo le ho sapute da mercanti e viaggiatori arabi e persiani… Ah, ah, ah… No, questo no… è un’infamia…”. Sollecita gli si accostò sua figlia: “Padre ve ne prego, calmatevi, non ve la prendete così, vi fa male…”. Un po’ rasserenato e chetato Marco Polo riprese: “Ti rendi conto Belella, ti rendi conto, che non ho fatto scrivere neppure la metà di quanto ho visto, anzi meno, molto meno della metà. Mi si accusa, portando l’argomento come riprova delle loro infamanti parole, di non essermi soffermato sulle usanze di quella sublime e raffinatissima civiltà: di non aver detto niente della mirabile capacità di lavorare la ceramica, degli stupefacenti
macchinari e delle precisissime presse che recano cifre e caratteri e che, ricoperte di una sostanza scura e oleosa, lasciano i loro segni su papiri o altra superficie, per non parlare della ritualità legata a una loro bevanda chiamata “tè”; soprattutto si dice che è impossibile non aver contemplato la Grande Muraglia che cinge una parte smisurata dei loro confini. Ma è facile parlare a sproposito, il fatto è che ero preso da tanti e tali di quegli uffici per l’Alta Corte che non mi è stato dato di girarmi intorno e di muovermi a mio piacimento”. Marco Polo sempre più perso nel suo passato lasciava fluire liberi i suoi ricordi senza più cercare di governarli e di instradarli.“Come ti dicevo c’è molto, molto di più di quanto scritto da Rustichello e da me raccontato qui questa sera; è tardi, concedimi ancora un poco della tua pazienza e poi andrò a letto e tu potrai tornare a casa dai tuoi cari che mi saluterai e ciò farai anche con le tue sorelle, le mie dolci Fantina e Moreta”. Bevve un goccio dal suo piccolo orcio per schiarirsi la voce e proseguì: “Voglio che tu sappia che non mi arrestai sulla terra delle foche avanti quello stretto ma andai oltre, molto oltre. Spinsi il mio cammino per giorni e giorni, per mesi, avanzai in quella terra sconosciuta e vi trovai un mondo, un nuovo mondo; nuove genti, nuovi popoli e più mi inoltravo verso sud più quel mondo cambiava, sembrava ingrandirsi, ingigantire… Andavo sempre più innanzi fino ad incontrare sempre nuove genti e popoli…” e si posò la mano sul cuore al colmo di una forte emozione e riprese: “Pensa… Pensa, ho incontrato un popolo ignoto, misterioso, evoluto, capace di costruire grandiosi palazzi per i nobili, costruzioni minori ma sempre di pietra per le genti e poi… E poi… immensi monumenti che si levavano infiniti verso il cielo. Queste singolari piramidi con ampi e smisurati gradoni si potevano risalire raggiungendo la loro immensa e piatta sommità dove ho udito che avvenivano sacrifici umani… ho incontrato solenni sacerdoti e sterminate folle di genti… Quel popolo a noi ignoto era chiamato Mexica o Tenochca… Sì… Sì… Gli aztechi mi pare… e raggiunsi anche la loro grande città che si chiamava… si chiamava… Ecco, mi pare che si chiamasse… Tenochtitlan… sì, era costruita al centro di un’isola di un vastissimo lago… e poi… e poi…”… e così, adagio, si addormentò.
Belella piano gli si avvicinò, pose lieve un bacio sul suo capo, accarezzò le sue mani che stringevano gli amati incartamenti e senza far rumore uscì portando con sé quella strana mappa vergata su pelle di pecora che le era stata affidata; la mappa che avrebbe svelato l’incanto di un nuovo Mondo