Sessa Aurunca: storia e memorie. In ricordo di Tonino Aurola, appassionato divulgatore di questo racconto liberamente tratto dalla Tradizione Popolare. (A cura di Silvio Sasso – 2015)

I DUE MUSICANTI (di via S. Carlo Borromeo)

Nelle sere degli anni ‘30, per poche lire, per diletto o solo per leggiadra spensieratezza giovanotti innamorati erano soliti andare per taverne e serenate. Dopo il tramonto era tutto un mescolarsi di canti, suoni e soavi gorgheggi. Sotto i balconi e dietro i muri da giardino spuntavano cantori impomatati pieni di passione e romantiche attenzioni.
Una di quelle notti, verso la fine del decennio, due di loro rientravano a Sessa particolarmente allegri quando, lungo la via del mare, si imbatterono in una pattuglia di gendarmi. Colti in flagrante per disturbo della quiete pubblica e schiamazzo notturno scesero dal calesse invocando la clemenza dei militari. Ma a nulla valsero accorate preghiere. I gendarmi elevarono ammenda e constatata la mancanza di documenti intimarono loro di declinare le generalità. I due senza perdersi d’animo – dismessa l’ormai inutile aria compassionevole – con rapida intesa e un colpo di genio tipico degli abitanti di queste parti dichiararono di chiamarsi Giuseppe D’Arimatea e Giovanni Nicodemo, di essere musicanti e di abitare in Sessa Aurunca alla via San Carlo Borromeo. I militari annotata ogni cosa e annunciata per l’indomani la rituale visita per la riscossione della sanzione li lasciarono andare nella calda notte estiva non prima di averli nuovamente ammoniti ed invitati a proseguire in silenzio.
Il mattino seguente, puntuali come il gallo al sorgere del sole, i due tutori dell’ordine si presentarono in via San Carlo e raccolte brevi informazioni si diressero da Sissuano il ciabattino che stava con la sua bottega all’angolo della strada. Nel vederli arrivare l’onest’uomo si meravigliò e quando capì che cercavano proprio lui si impressionò non poco. Che volevano da lui che lavorava dall’alba al tramonto? Notizie su qualcuno? Ma nella strada c’era solo brava gente e forestieri non ne passavano. Colto di sorpresa, mentre pensava tutto questo si era intanto alzato con deferente inchino preparandosi al peggio. Gli venne bene. Per sua fortuna, infatti, restituendogli la serenità le guardie chiarirono subito il motivo della visita. Cercavano Giuseppe D’Arimatea e Giovanni Nicodemo domiciliati in via San Carlo Borromeo, fermati la sera prima per disturbo delle quiete pubblica. Sissuano tirò un sospiro di sollievo e posati sul desco i ferri del mestiere senza scomporsi disse loro di attendere. Si alzò e percorse i pochi passi che lo separavano da casa.
– “Nanninè, a chiav…” – urlò imperativo verso il balcone spalancato al piano rialzato.
In un attimo si affacciò la moglie che con gesto abituale lasciò cadere delle grosse chiavi legate da uno spago ruvido e robusto. Sissuano le afferrò al volo con naturale abilità. I gendarmi si guardarono attoniti. Per trovare quei due ci volevano le chiavi? Ecco perché era stato già così difficile arrivare a Sissuano. Stranamente, infatti, tutti quelli a cui avevano chiesto di indicargli la casa di Giuseppe D’Arimatea e Giovanni Nicodemo li avevano guardati con stupore e sbrigativamente invitati a rivolgersi al ciabattino all’angolo. Che voleva dire? Chi erano veramente D’Arimatea e Nicodemo? E che c’entravano con quell’uomo che li precedeva con un fascio di chiavi in mano? La sera innanzi li avevano fermati per schiamazzi, altro non sembrava, ma ora la cosa stava cambiando e il dubbio crebbe ancor più quando Sissuano prese la via della chiesa in fondo alla strada. Giunti sull’uscio, sotto il loro sguardo stranito, il ciabattino infilò la chiave nella serratura arrugginita e spingendo con forza spalancò la porta. Li invitò ad entrare e fece strada. Questi lo seguirono togliendosi il pennuto copricapo d’ordinanza. La chiesetta era raccolta, ad ogni edicola un santo, qualche cero consumato e fiori appassiti. Al centro un San Carlo dinanzi al Crocifisso, sotto un altare in legno e i paramenti per la messa. Sul lato destro un panno pesante e scuro chiudeva la vista di una cappella laterale. A questa si diresse Sissuano mentre spiegava di essere da oltre trent’anni il sagrestano, che prima di lui lo era stato suo padre e che in quella chiesa c’era nato e cresciuto. Parlando si era portato allo spigolo della cappella dove afferrato il panno che ne impediva la vista lo trascinò lateralmente verso la parte opposta. Ffffrrrrrrr…! Il rumore che ne seguì provocò un fremito nei militari che mai avevano sentito un fruscio tanto intenso e vibrante. Tirata la tenda apparve in tutta la sua imponenza e maestosità il Mistero della Deposizione.
– “Eccoli qua! Giuseppe D’Arimatea e Giovanni Nicodemo” – disse indicando le due figure che alla destra e alla sinistra del Cristo morto, con fare caritatevole e misericordioso, si adoperavano per raccoglierne il corpo martoriato.
I due gendarmi, imparpagliati, trattenendo a stento il fiato per la sorpresa e tentando di ristabilire l’ordine delle cose ammonirono il ciabattino con voce autoritaria chiarendo che non cercavano le statue, ma due musicanti, quelli che avevano fermato la sera prima e redarguito per la loro vivacità.
Sissuano – tanto sicuro di sé da non temere più l’autorità dei due – sorrise e scosse la testa. Poi afferrò nuovamente la tenda e facendola scorrere richiuse la cappella e la vista del Mistero. Lo fece con decisione, convinzione e soprattutto con l’intento di dare a quel gesto la solennità definitiva e inappellabile di quello che stava per dire:
– “Ma no, mariscià! Qual schiamazz notturn…!? Da rint’ a chies nun s’ sò mai muoss. So trent’anni che ri teng’ cà e nun l’agg’ mai saput musicant”.